Proponiamo un articolo di  Luca Martinelli pubblicato su Altreconomia.it

Dal 1990 il 50% più povero della popolazione mondiale è stato responsabile del 16% di tutte le emissioni, l’1% più ricco, di contro, è stato responsabile del 23%. È quanto emerge da una ricerca che ha analizzato l’evoluzione nelle diverse aree geografiche e all’interno di ogni Paese nel trentennio 1990-2019. Una questione di disuguaglianze

“Ho scoperto che il 50% più povero della popolazione mondiale ha emesso il 12% delle emissioni globali nel 2019, mentre il 10% più ricco ha emesso il 48% del totale. Dal 1990, il 50% più povero della popolazione mondiale è stato responsabile solo del 16% di tutte le emissioni, mentre l’1% più ricco è stato responsabile del 23%”, scrive Lucas Chancel, economista francese, co-direttore ed economista senior presso il World Inequality Lab della Scuola di Economia di Parigi, nell’introduzione al suo ultimo saggio pubblicato a fine settembre dalla rivista scientifica Nature Sustainability.

La sua ricerca “Global carbon inequality over 1990-2019” analizza l’evoluzione delle emissioni nelle diverse aree geografiche e all’interno di ogni Paese. Secondo Chancel, “mentre le emissioni pro-capite del ‘top 1%’ mondiale sono aumentate dal 1990, le emissioni dei gruppi a basso e medio reddito all’interno dei Paesi ricchi sono diminuite”. E ancora: “Contrariamente alla situazione del 1990, il 63% della disuguaglianza globale nelle emissioni individuali è ora dovuta a un divario tra emettitori bassi e alti all’interno dei Paesi, piuttosto che tra i Paesi”.

Insomma, le emissioni di gas climalteranti sono un problema collettivo ma riguardano in particolare i ricchi. E se è vero che definire strategie globali di contenimento delle emissioni, per ridurre l’impatto del riscaldamento globale, è compito dei governi, che tra un mese (dal 6 al 18 novembre) si riuniranno in Egitto per la Cop27, ciascuno è chiamato a comportamenti virtuosi per ridurre le proprie emissioni. E i primi a dover prenderne atto sono i ricchi e i ricchissimi. Per questa ragione discussioni come quella avviata in Francia sull’abolizione dei voli di linea nelle tratte servite dai treni ad alta velocità o sulla “messa al bando” dei voli dei jet privati sono centrali, anche se in Italia il tema -posto nell’ultima campagna elettorale da Unione popolare e dall’Alleanza Verdi-Sinistra Italiana- è stato ridicolizzato tra gli altri dall’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi (il leader di Italia Viva ne ha fatto largo uso, come ha documentato la campagna “jetdeiricchi“).

Nel suo saggio Chancel ha scelto di analizzare il trentennio 1990-2019 perché -spiega- “questi tre decenni hanno visto cambiamenti critici nella distribuzione della crescita economica mondiale, che non sono stati studiati sistematicamente dal punto di vista della disuguaglianza delle emissioni di gas serra”. Ad esempio, è “sorprendente”, spiega il ricercatore, che la metà più povera della popolazione degli Stati Uniti abbia livelli di emissioni paragonabili al 40% di europei il cui livello di reddito è medio, nonostante sia quasi due volte più povera di questo gruppo in termini di parità di potere d’acquisto. O che la Russia e l’Asia centrale hanno una distribuzione delle emissioni sostanzialmente simile a quella dell’Europa, ma con emissioni più elevate nel 10% superiore e questo -secondo Chancel- è dovuto principalmente “a causa delle maggiori disuguaglianze di reddito e di ricchezza in Russia e in Asia centrale”.

“Global carbon inequality over 1990-2019” permette dunque di comprendere l’evoluzione delle emissioni in relazione alla ricchezza nell’arco di un trentennio: a partire dal 1990, le emissioni globali medie pro-capite sono cresciute del 2,3% ma il problema non è solo lo sviluppo che ha portato fuori dalla povertà estrema miliardi di persone (le emissioni del 50% più povero, che sono cresciute del 26%, più velocemente della media), scaricando ogni responsabilità su Paesi come Cina e India. Nello stesso periodo le emissioni pro-capite del primo 1% sono cresciute del 26% e quelle del primo 0,01% dell’80%.

Il dato relativo alle emissioni pro-capite è importante ma lo studio di Chancel va oltre perché aiuta a comprendere il contributo che ciascun gruppo sociale offre alla quota complessiva di crescita delle emissioni totali. Con riferimento al 1990, “la metà inferiore della popolazione globale ha contribuito solo al 16% della crescita delle emissioni osservata da allora, mentre l’1% superiore (77 milioni di individui nel 2019) è stato responsabile del 23% della crescita totale delle emissioni” sottolinea l’articolo. Questo significa, in altri termini, che il contributo dato da 7,7 milioni di individui (cioè lo 0,1% della popolazione globale nel 2019) è pari a circa due terzi dell’intera crescita delle emissioni associate alla metà più povera della popolazione globale, cioè nello stesso anno a quasi 3,9 miliardi di persone.

Chancel rende evidente tutto questo andando a verificare la situazione attuale e mettendola in relazione con la riduzione delle emissioni pro-capite identificate dai Contributi nazionali determinati stabiliti nell’ambito dell’Accordo di Parigi: per quanto riguarda gli Stati Uniti questi implicano un obiettivo pro-capite di circa dieci tonnellate di CO2e nel 2030 e per quanto riguarda l’Europa di circa cinque tonnellate. “Negli Stati Uniti e in alcuni Paesi europei trovo che il 50% inferiore della popolazione sia relativamente vicino o addirittura raggiunga questi obiettivi per il 2030. Non è così per il 40% medio e il 10% superiore della distribuzione del reddito in questi Paesi. Negli Stati Uniti, il 10% superiore dovrebbe ridurre le proprie emissioni medie pro-capite dell’86% per raggiungere l’obiettivo del 2030”, mentre in Francia -il Paese in cui lavora il ricercatore- dell’80% circa.

Leggi sul sito Altreconomia.it