Da Comuneinfo un articolo su quello che in molti angoli del mondo viene chiamato commoning, cioè la condivisione di spazi, sforzi, significati in cui la priorità non è il profitto ma la qualità delle relazioni tra le persone.
Commoning è fare in comune, quello che emerge quando bisogni e desideri non trovano soddisfazione, è ciò che promuove il mutuo aiuto dopo terremoti, violente crisi economiche, disastri sempre più spesso provocati dai cambiamenti climatici. In questo articolo Massimo De Angelis spiega perché il commoning non è roba da hipster alla ricerca di stili di vita alternativi e ragiona sul rapporto tra commoning e istituzioni. Abbiamo bisogno di territori che mettono insieme commoning e lotta per favorire ovunque cambiamenti robusti. In questi casi non è che la coscienza delle persone si innalza a un livello più alto di comprensione dei meccanismi sociali, quello che accade è che si rafforza la loro capacità di prendere in mano la propria vita.
l commoning è un insieme di processi di condivisione di risorse, spazi, traiettorie di vita, obiettivi, sforzi, condivisione dei prodotti del fare (anche oltre il cerchio di chi li ha prodotti), condivisione dei significati. Essenzialmente, condivisione del fare, che è anche il pensare e il ragionare. Il commoning è quindi fare in comune. È quella forma di lavoro sociale, di attività umana interconnessa, dove tutto ciò che è condiviso in un processo comune è sottoposta a una misura delle cose altrettanto condiviso. La condivisione della misura delle cose è la condivisione delle decisioni sul cosa, il come, i chi, il quando, il quanto e il perché della cooperazione sociale che si intrattiene. È in processi formali e informali di condivisione della “misura delle cose” che nasce la forza del commoning. Il commoning dunque non è solo democratico è profondamente democratico.
Proprio per l’accento sulla condivisione, il commoning non è un lavoro sociale come quello che facciamo in fabbrica, negli uffici, nella gig economy… questo perché il suo carattere sociale è costruito diversamente. Nel commoning non ci sono managers che ti ordinano cosa fare, o supervisori che quantificano la tua produzione, né burocrati che ti impongono una data condotta: ci sono solo persone con diversi ambiti di esperienza e di sensibilità e obiettivi comuni, persone che comunicano tra di loro, e regole comuni che sono il prodotto democratico di questa comunicazione (regole quindi che possono essere sempre cambiate). La finalità principale del commoning non è il profitto, ma tanti altri obiettivi utili, valori d’uso come il cibo di un orto comunitario, una produzione artistica condivisa, la ricerca scientifica, l’accoglienza dei migranti, particolari processi educativi, la gestione di un mercato urbano di piccoli produttori agro-ecologici, l’aiuto a settori della popolazioni bloccata dalla pandemia, la costruzione e gestione di un laboratorio tecnologico a uso del quartiere (fab lab), e via dicendo. Ma allo stesso tempo, insieme a questi svariati possibili valori d’uso, il commoning, proprio in virtù del fatto che è condivisione delle molteplici misure delle cose del fare, si preoccupa di creare valori relazionali, cioè di dar valore alla qualità delle relazione tra i partecipanti del commoning. Il commoning quindi è un lavoro sociale che non cambia solo i mezzi e i fini del lavoro, ma anche i soggetti stessi, e li induce ad aprirsi all’altro, ad esserne contaminati. Il commoning dunque è un processo che si volge a togliere la terra sotto i piedi alle gerarchie che si riproducono nel mondo contemporaneo, e alla loro intersezione (quelle di classe e reddito, di genere, di etnia e colore della pelle, di disabilità e via dicendo). Il commoning presuppone e produce condizioni comuni del fare (eguaglianza) mobilitando le differenze.
Il commoning allora non è (solo) roba da hipsters, cioè di una subcultura espressa da giovani bohémien del ceto medio e benestante spesso associato alla musica indie e alternativa, con una variegata sensibilità nei confronti della moda alternativa e una propensione per la politica pacifista, primitivista ed ecologista, per i prodotti dell’agricoltura biologica e per i cibi slow food, l’artigianato, il veganismo o gli stili di vita alternativi (come nella definizione di hipster di wikipedia).
Per tre motivi.
In primo luogo perché il commoning viene da molto lontano, affonda le sue radici nella civiltà contadina (nelle forme di condivisione del lavoro comune nei campi, per il mantenimento delle infrastrutture del territorio, e il mutuo aiuto tra le classi popolari sia nelle città che in campagna).
In secondo luogo, perché il commoning lo facciamo a diverse scale anche nella nostra quotidianità. Si pensi a una festa organizzata da un gruppo di amici, al processo decisionale tra un gruppo di ragazze sul che fare alla sera, alle dinamiche di aiuto reciproco in una rete di relazioni, alla condivisione del lavoro domestico.
In terzo luogo, esso è espresso in tutto il mondo in forme culturali diverse. E in qualsiasi parte del mondo il commoning emerge dirompente la dove vi sono bisogni e desideri urgenti che non trovano soddisfazione. Si guardi per esempio ai tanti casi dove sorge un emergenza sociale: il disastro di Katrina a New Orleans nel 2005, la crisi dell’acqua in Bolivia dovuta prima alle carenze del pubblico e poi a quella della privatizzazione, la crisi sociale in Grecia nel 2008 e via dicendo, in tutti questi casi è il commoning, portatore di solidarietà e di mutuo aiuto, che ha affrontato crisi provocate da stato o mercato.
Quale rapporto con le istituzioni
Le istituzioni hanno un rapporto variegato rispetto al commoning. Quelle più grette e appiattite sulle forme mainstream della cooperazione sociale (che per loro passano solo da stato o mercato, o da un associazionismo gerarchizzato, ad alto grado identitario e con confini chiusi) tendono a ignorare o a criminalizzare il commoning, perché esso non identifica leader fissi e cooptabili, o per esempio non rispetta il diritto di proprietà di speculatori a fronte di enormi bisogni abitativi. Come ci ricorda lo storico Peter Linebaugh, la gente che fa commoning “non pensa prima agli atti di proprietà, ma agli atti umani” e ai bisogni che questi atti umani soddisfano o potrebbero soddisfare.
Quelle istituzioni più aperte e sensibili alle problematiche del nostro tempo sono anche quelle che più sono aperte a essere contaminate da forme nuove del commoning per affrontare queste problematiche. E allora esse si ingegnano per trovare forme di supporto al commoning, cambiando leggi e regolamenti, assegnando immobili o terreni a comunità che si vogliono mettere in gioco per fare la loro parte, destinando fondi affinché uno spazio, un terreno, o delle persone possano operare in libertà e responsabilità costruendo bene comune. Abbiamo bisogno di un’esplosione esponenziale di queste istituzioni con questo orientamento virtuoso nei confronti del commoning.
Lo spazio per un intervento istituzionale virtuoso a fronte dei tanti problemi sociali ed economici è enorme. Per iniziare per esempio, in Italia ci sono 5 milioni di case sfitte, 500 mila negozi chiusi, 700 mila capannoni dismessi, e 55 mila immobili confiscati alle mafie, nonché 3 milioni e mezzo di ettari di terreno incolti. Basterebbero tre cose per valorizzare questa ricchezza sociale e far fiorire creatività e solidarietà per mezzo del commoning: 1. mobilitazione diffusa e massiccia sui territori dal quale emergano idee, pratiche e progetti a finalità sociali e ambientali nonché di creazione di reddito per i partecipanti, e le comunità di riferimento; 2. Uno stato non schiacciato sulle priorità della crescita ma aperto sulla necessità di dare strumenti giuridici affinché si permetta alle energie dal basso di incarnarsi in circuiti virtuosi di cooperazione sociale e utilizzare risorse inutilizzate; 3. Finanziare, attraverso strumenti quali il reddito universale di base, la riduzione della nostra dipendenza dal mercato, così da liberare tempo da mettere a disposizione di un altro tipo di cooperazione, non basato sulla corsa concorrenziale ma sui bisogni, desideri e aspirazioni della gente e dei territori. Il primo di questi punti, è precondizione degli altri due.
Significato del commoning nelle periferie
Periferia vuol dire tante cose, è periferico tutto ciò che non è centrale. In questo senso, il commoning è una pratica considerata periferica, marginale dalla cultura dominante della cooperazione sociale dominata da stato e mercato. Intese come spazi urbani, le periferie sembrano essere sia luoghi in cui si innesta la produzione e la circolazione per il mercato globale (magazzini logistici, nuovi terreni di “gentrificazione”, nuove infrastrutture ecc.), sia luoghi dell’abbandono insediativo e di segregazione spaziale (prodotto dalla concorrenza economiche tra periferie). Le periferie sono dunque attraversate dai flussi contraddittori dei circuiti della produzione globale capitalistica, che riconfigura spazi/luoghi a seconda delle esigenze dell’accumulazione e della gestione del conflitto.
Vi sono oggi molteplici crisi che colpiscono in modo particolare le tante e diverse periferie del mondo: la crisi ambientale, la crisi sociale ed economica, quella sanitaria e dell’educazione. Tutte queste crisi, ad andarle ad analizzare, sono il prodotto della contraddizione profonda che esiste tra riproduzione del capitale (e il suo incessante bisogno di crescita) e la riproduzione sociale, e suoi numerosi bisogni. Forse si possono dunque definire le periferie del mondo come spazio privilegiato dell’accumulazione di questa contraddizione come dimostrano gli 80 milioni di persone all’anno nel mondo che si spostano in città, alimentando le periferie; l’esistenza nelle periferie di redditi inferiori, meno servizi riproduttivi, più precarietà, più indigenza e povertà, più polarizzazione di accesso al reddito e ricchezza sociale.
Il commoning quindi può trovare un terreno molto fertile nelle periferie. E qui credo sia importante ragionare sulla necessità di una nuova generazione di spazi sociali e politici dentro le periferie che siano in grado simultaneamente di far convergere reti di solidarietà attorno ai vari bisogni della riproduzione sociale nella crisi, assieme anche a percorsi rivendicativi. Spazi e luoghi cioè dove praticare e ragionare su nuove forme di organizzazione della cooperazione sociale, in cui i prodotti emergenti sono anche la creazione di “infrastrutture” che vanno a beneficio sia della lotta rivendicativa, che di forme di cooperazione sociale per la soddisfazione di bisogni basata sul commoning.
La creazione di hub che mettano insieme commoning e lotta, promuove quella che Raúl Zibechi chiama società in movimento. Mentre in generale tendiamo a considerare i movimenti sociali come attività organizzata attorno a una rivendicazione collettiva, a una serie di domande, o a l’espressione di una frustrazione condivisa, il concetto di società in movimento sposta invece l’attenzione sui modi in cui le strategie di sopravvivenza quotidiana delle classi subalterne acquisiscono de facto il potere di produrre cambiamenti quando si coordinano e collettivamente. In questi casi non è che la coscienza delle persone si innalza a un livello più alto di comprensione dei meccanismi sociali, quello che accade è che si rafforza la capacità delle persone di vedere in pratica che diversi valori e relazioni sociali danno loro l’opportunità di prendere in mano la propria vita e migliorarla. Che nelle periferie dunque fioriscano milioni di hub che sappiano combinare lotta e riproduzione sociale sulla base del commoning, del fare in comune.
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