Intervento di Deborah Lucchetti (Fair e campagna Abiti Puliti) alla giornata di Firenze sulle Sfide dell’economia solidale

Parto da uno dei tanti viaggi durante la pandemia, da casa: quando abbiamo affrontato la crisi che ha improvvisamente congelato il commercio internazionale. L’economia tossica, marcia, si interrompe drasticamente. Milioni di lavoratori e lavoratrici del settore tessile hanno dovuto gestire i vari lockdown con condizioni di congelamento e un successivo tentativo di normalizzazione.

Quello che abbiamo osservato negli ultimi mesi è l’esplosione dell’economia nel settore tessile.

Siamo di fronte a una grande esplosione del mondo del lavoro. Parliamo di milioni di lavoratori e lavoratrici, principalmente soggetti vulnerabili, donne di colore e giovani.

Facciamo campagne come Abiti puliti perché rivendichiamo il diritto fondamentale a un lavoro dignitoso per chiunque, per qualunque lavoratore o lavoratrice su questa terra, ma è chiaro che ci troviamo di fronte a una crisi sistemica multilivello che difficilmente potrà essere risolta con le risposte tradizionali.

Un altro aspetto drammatico è il definitivo disaccoppiamento tra profitti e salari. L’Italia, in questo, è campione a livello europeo; è l’unico paese OCSE che ha visto diminuire drammaticamente il potere di acquisto.

La globalizzazione come l’abbiamo conosciuta e contestata vent’anni fa, prima a Genova e poi a Firenze, non esiste più. Esiste una ristrutturazione, una riorganizzazione rapida – e in questo il capitale è molto bravo, veloce, capace: di fatto sta già scorgendo nella ri-localizzazione delle unità produttive un’opportunità di sviluppo molto importante, complice la situazione geopolitca internazionale: costi energetici alle stelle, crisi internazionali di filiere, il fatto che ormai i trasporti turistici siano decuplicati.  La rilocalizzazione – un tema ormai molto caro a noi dell’economia solidale –, ossia riportare le economie vicine a livello di prossimità, in un’ottica di governance territoriale, è una strategia che stanno adottando le imprese multinazionali: è più conveniente tornare a produrre in Italia e in Europa, dove le condizioni di lavoro, di vita e salariali sono del tutto competitive e comparabili oggi, in termini proporzionati e relativi al contesto nazionale, a quelle dell’Asia. Si chiama tecnicamente “re-shoring”.

Cosa vuol dire dunque ragionare di alternative in campi così difficili e complessi come quello del tessile, che ha anche input tecnologici diversi? L’agroecologia funziona perché priva di input chimici, non naturali, e può essere più facilmente sganciabile dalla logica di mercato di mercificazione.

Noi come campagna dedichiamo molto tempo a combattere il greenwashing, il farmwashing, l’ethicalwashing; tutte espressioni con cui le imprese sono così capaci di comunicare dei comportamenti talmente fuorvianti che ci convincono che quel prodotto è non solo necessario ma anche buono, eticamente accettabile. Io vorrei aggiungere un altro elemento, un’altra categoria di green washing: quella politica, quella pubblica. Uno dei più grandi successi del mercato, negli ultimi 10 anni, è la capacità di utilizzare il greenwashing per convincerci che era possibile non solo affermare un simbolo, quello dello sviluppo sostenibile, ma anche venderci dei prodotti che di fatto contenessero sostenibilità sociale, ambientale ed economica contemporaneamente. Questo è un ossimoro: i limiti dello sviluppo, le crisi climatiche ci dimostrano che non è possibile continuare ad estrarre materie prime, a produrre prodotti inutili, senza violentare e violare la biosfera. Il concetto di sviluppo sostenibile, di crescita sostenibile è un concetto per riutilizzare la crisi ambientale a vantaggio di pochi.

Dobbiamo sicuramente uscire da una logica lineare dell’economia e da obsolescenze programmate, in cui si entra con un prodotto – con una logica estrattiva – e si finisce con un rifiuto in maniera anticipata e veloce. Il problema non è produrre cose utili per il valore d’uso, ma produrre e consumare rapidamente per fatturare di più, ed è questa per esempio la logica che caratterizza la fast fashion.

La strategia europea sull’economia circolare parla di “qualità di una vita”, “utilizzo prolungato”, “riparazione di uso”, e la mette al centro delle politiche e dei protocolli operativi che poi vanno ad orientare le politiche nazionali su questo tema, ma non si fa menzione della questione della giustizia sociale. Lo abbiamo scoperto e anche denunciato. Dal punto di vista di questa strategia politica europea, si potrebbe parlare di circolarità dell’economia, di sostenibilità, di transizione ecologica senza contemplare una riflessione su cosa sia la giustizia sociale e su come sia possibile trattare la transizione ecologica senza riconoscere al lavoro la centralità che merita, senza coinvolgere il mondo del lavoro e senza far riferimento a quei limiti strutturali che producono l’ingiustizia, l’ineguaglianza che noi denunciamo e milioni di lavoratori poveri nel mondo.

Quando parlo di greenwashing strutturale, penso che dovremmo rivolgere particolare attenzione a questo tipo di dinamica, perché una delle trappole più pericolose – anche per la realizzazione di modelli alternativi – è che sia un po’ una scommessa di tutti. Di fronte a questa grande esclusione planetaria, la domanda che dobbiamo porci come campagne e attivisti, ma anche come soggetti dell’alternativa, è: come facciamo a trasformare e a reintegrare questi milioni di lavoratori e lavoratrici, in tutto il mondo, come anche in Italia, che prima o poi saranno espulsi da questi cicli economici tossici perché di fatto non avranno più bisogno di loro? In che tipo di processo economico possiamo avere delle riqualificazioni e possiamo quindi ricostruirgli il percorso di lavoro dignitoso, da una parte, e di attività lavorative e salariate dall’alta? Le amministrazioni, i governi e le politiche europee, che poi a cascata diventano politiche nazionali, giocano un ruolo fondamentale.

Penso che sia giusto e importante guardare oggi come l’economia stia evolvendo e come riappropriarci di alcune parole, e non permettere invece, come spesso accade, che le istituzioni ostacolino l’economia di sviluppo locale e solidale, camuffando, con politiche apparentemente concilianti o supportanti la transizione, pratiche che vanno nella direzione opposta.

RIES aderisce alla campagna “Good Clothes, Fair Pay” (Abiti buoni, salari equi) promossa in Italia da AbitiPuliti.  Si tratta di una “ICE”, cioè un’Iniziativa dei Cittadini Europei, uno strumento per contribuire dal basso alle politiche della UE, chiedendo alla Commissione europea di proporre nuovi atti legislativi. Quando un’iniziativa raccoglie un milione di firme, la Commissione decide quale azione intraprendere.

Con Good Clothes, Fair Pay  si chiede una legislazione sui salari dignitosi in tutto il settore dell’abbigliamento, del tessile e delle calzature. Infatti, fino ad oggi i marchi della moda hanno fatto solo promesse, ma non hanno cambiato le proprie pratiche. Non possiamo aspettare che agiscano spontaneamente: servono leggi e obblighi per regolare l’industria tessile. I marchi devono avere responsabilità legali.

LEGGI IL TESTO COMPLETO DELL’INIZIATIVA DEI CITTADINI EUROPEI (ICE)

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